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Siamo esseri sociali, ma non schiavi
 
 
 

 


Noi siamo cresciuti in un ambiente sociale e familiare che ci ha dato una serie di stimoli e di informazioni (piacevoli e spiacevoli) che hanno formato il nostro patrimonio culturale - affettivo - psicologico. Noi abbiamo nel nostro bagaglio tutta quella roba lì e non ci possiamo fare nulla.

Il problema nasce fuori di noi, in uno schema culturale occidentale basato da una parte sul complesso colpa / giudizio e dall’altra sulla paura e quindi sulla "ricerca di un futuro migliore".

Qualunque cosa accada è previsto un giudizio: non è pensabile un telegiornale che riporti le notizie come semplici constatazioni, occorre anche il commento, anzi il commento vale molto più della notizia in sé.

Quindi il giudizio è più importante del fatto.

Tutta la nostra giornata è vissuta come se qualcuno stesse lì a guardare se facciamo bene o male e ci giudichi anche nei momenti più intimi e solitari.

Che cosa ci può essere di più assurdo di una persona sola in casa che apre il frigo e mangia una cucchiaiata di Nutella con la stessa circospezione di un ladro nel caveau di una banca (ma con molti più complessi di colpa)?

Perché mai, se nessuno mi vede e non sto facendo del male a nessuno, devo giudicarmi io? E quasi sempre condannarmi, senza prove e senza appello.

La paura è comunque la grande maestra della cultura occidentale, paura di perdere quel che abbiamo, paura di perdere quel che potremmo avere, paura dell’ignoto, paura del diverso, paura della morte.

Tutta la nostra vita è basata sul tentativo di conquistare e difendere una sicurezza. E poiché in natura nulla è certo e nulla è eterno, siamo in un gran bel guaio, ma non ce ne accorgiamo.

Per convincerci a raggiungere determinati obiettivi, simbolo di sicurezza sociale, ci sono stati additati esempi precisi: siamo cresciuti sentendoci dire "Guarda Tizio, in quattro e quattr’otto..." ed i modelli da imitare erano sempre splendidi ed inarrivabili.

Certo ai loro tempi era tutto più difficile, ma oggi, con le scuole che ti mettono a disposizione, le vacanze nei posti giusti e le amicizie e …. Basta un po’ di buona volontà ed il gioco è fatto.

Quando da grande sei quello che sei e ti accorgi di non essere quello là .... deve per forza essere stata colpa tua, devi avere per forza sbagliato qualcosa.


A.B. ♀

13 anni, capelli biondi, 155 cm: da grande farò l’indossatrice

23 anni, capelli biondi, 156 cm, casalinga.


G.A. ♂

15 anni, 9 in disegno tecnico e fisica: da grande farò l’ingegnere aeronautico

25 anni, operaio in un calzaturificio.

 

Non sei adeguato, non rispondi alle aspettative degli altri.

Ma quali altri? Non ti accorgi che nessuno ti guarda come un fallito e, soprattutto, che nessuno sapeva che tu saresti dovuto diventare quello là?

No, non se ne accorge, per questo sta male e va dallo psicoterapeuta.

Il giorno che se ne accorge, che si guarda nello specchio e si sorride, che si rende conto che ha fatto quel che poteva, nel bene e nel male, e di più non poteva, quel giorno la psicoterapia è finita.

Ma serviva davvero tirar fuori tutta quella spazzatura e giudicare l’operato di genitori, amici e parenti che, anche loro, hanno fatto quasi sempre tutto quel che potevano fare?

Non bastava dirgli, fin dal primo giorno, di vivere la sua vita giorno per giorno, di godersela ora per ora, di lasciare i sogni per la notte, di mandare al diavolo giudici e giudizi?

No non bastava.

Ma forse la psicoterapia non serviva.

O forse serviva, serviva che qualcuno lo stesse a sentire e lo prendesse in considerazione non ostante fosse così tremendamente sbagliato, serviva che qualcuno gli facesse capire, spesso inconsciamente, che non era in fondo una schifezza come pensava.

Serviva che qualcuno, volutamente o inconsapevolmente, lo liberasse dagli schemi mentali e culturali che lo imprigionavano e da quel "peccato originale" che lo faceva sentire sbagliato prima ancora di sapere perché.


 

"E’ la debolezza dell’uomo che lo rende socievole: sono le nostre miserie comuni che portano i nostri cuori all’umanità: noi non le dovremmo niente se non fossimo uomini. Ogni affetto è un segno di insufficienza: se ciascuno di noi non avesse nessun bisogno degli altri, non penserebbe affatto ad unirsi ad essi. Così dalla nostra infermità stessa nasce la nostra fragile felicità. [...] Non posso credere che chi non ha bisognodi niente possa amare qualcosa; e non posso credere che chi non ama nulla possa essere felice."

(J.J. Rousseau: Emile)

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